Home città Tivoli Il tiburtino Jari Niro si racconta: “Anche il calcio è pieno di gente falsa. Ma è stato la mia vita”

Il tiburtino Jari Niro si racconta: “Anche il calcio è pieno di gente falsa. Ma è stato la mia vita”

Il tiburtino Jari Niro si racconta: “Anche il calcio è pieno di gente falsa. Ma è stato la mia vita”

di Alessandro Galastri

A volte il talento, la velocità e il sacrificio non bastano nel calcio. Ci vuole anche un pizzico di fortuna. Quella che è mancata troppo spesso in carriera al tiburtino Jari Niro, ala veloce e possente, troppo spesso frenato da infortuni e problemi fisici. Jari ci racconta gli episodi più significativi della sua storia calcistica, la passione per questo sport e la voglia costante di crescere come uomo e calciatore.

Gli inizi – “La prima squadra con cui ho giocato nel lontano 1994 è stata l’Andrea Doria. Sono stati forse i tre anni più belli della mia carriera, perché allora all’età di 8 anni si giocava solo di istinto, senza quasi pensare. Poi sono passato alla Tivoli 1919 con mister Sebastiani, al quale voglio molto bene, dove ho trascorso quasi un decennio stupendo con gli stessi compagni di squadra, formando un gruppo forte, unito e che si voleva davvero bene. Inoltre ho avuto la fortuna di stare nella Tivoli degli anni d’oro, dove c’erano grandi giocatori e ho avuto la fortuna di esordire in Serie C a 17 anni grazie a Ubaldo Righetti, che mi portò in pianta stabile in prima squadra”.

Il primo stop – “Nel 2005 passo al Mentana in serie D dopo la retrocessione della Tivoli e l’addio del presidente Caucci, momento che ha segnato il lento declino dei colori amarantoblu. Gioco tutto il girone di andata e alla prima di ritorno mi rompo il crociato, un infortunio che mi fece stare lontano dal campo per un anno e due mesi per un conseguente strappo del retto femorale. È stato un lungo recupero, molto difficile anche dal punto di vista mentale, perché all’improvviso mi accorsi che tante persone scomparirono e capii per la prima volta che il calcio è pieno di gente falsa, proprio come nella vita del resto”.

La rinascita – “Mi allenavo due volte al giorno e ripartii dalla Promozione a Zagarolo, dove vincemmo il campionato. Per me fu un anno davvero positivo, segni 8 gol grazie anche ai consigli del capitano Alberto Pisanelli, un grande giocatore. Poi l’anno dopo rimasi fino a dicembre in Eccellenza, per poi andare via non trovando molto spazio con mister Berti, nonostante stessi in ottima forma e risolsi un paio di partite subentrando dalla panchina”.

L’aneddoto – “Nel 2008 giocavo a San Cesareo in Promozione, avevamo una grande squadra ma arrivammo quarti e feci un campionato normale. Finisce la stagione e faccio un torneo estivo a Guidonia dove conosco l’allora direttore sportivo del Guidonia Calcio Salfa che mi disse di andare al Comunale per una partita di selezione dei migliori giovani della zona, sotto l’osservazione dell’allora mister Ferretti. Finita la partita l’allenatore venne direttamente da me e mi disse che il giorno seguente sarei partito in ritiro con la squadra. Devo dire che quella fu davvero una grande emozione, per il fatto di essermi sentito apprezzato come giocatore e di aver ritrovato la Serie D, una categoria dove si inizia a praticare un tipo di calcio più vicino al professionismo che al dilettantismo”.

Le vittorie – “Il calcio è strano e così mi ritrovo a giocare di nuovo in serie D e a sfiorare la promozione in Lega Pro, disputando 25 partite. Dai 23 ai 28 anni complessivamente gioco due stagioni in D e tre in Eccellenza, con le maglie del Guidonia, del Pisoniano e del Valmontone. Ottengo un secondo posto col Guidonia e un terzo posto a Pisoniano, dove però gioco poco sotto la guida dell’allenatore Di Franco. E poi arriva l’esperienza a Valmontone, con il quale gioco per un anno e mezzo. Conservo ancora un grande ricordo di quell’avventura e fui molto dispiaciuto di andare via a causa dei mancati pagamenti degli stipendi nella parte finale della stagione. E qui veniamo al grande problema del calcio dilettantistico, dove purtroppo si fanno tante promesse, ma nella realtà dei fatti esistono ben poche certezze. Si trattava di stipendi davvero cospicui, legati anche al fatto che l’impegno era tanto, con 4 o 5 allenamenti a settimana alle 3 di pomeriggio, più la partita della domenica, in pratica un vero e proprio lavoro. Peccato perché con una società stabile alle spalle avremmo lottato fino alla fine contro corazzate come San Cesareo e Lupa Frascati, che all’epoca spesero cifre incredibili”.

Il calvario – “Da quel momento in poi disputo tre campionati di Promozione, in cui gioco a sprazzi causa infortuni, con la frattura della caviglia a Tor Bella Monaca e la rottura del menisco l’anno successivo col Serpentara, dove comunque mi rendo protagonista della promozione in Eccellenza della squadra rientrando le ultime 7 partite e realizzando una doppietta alla terzultima di campionato. La cosa più bella di quell’anno, il 2014, è il fatto di aver vinto insieme a tiburtini doc come Scotto Di Clemente, De Santis e Abbondanza. Ma i guai fisici non finiscono e a novembre torno sotto i ferri per una ricaduta al ginocchio, ma continuo a giocare perché con il sacrificio e il sudore si ottengono sempre i risultati”.

Gli esempi sul campo – “L’allenatore più forte che ho avuto forse è stato Stefano Ferretti, che paragonava sempre il calcio alla musica. Il più bravo giocatore con cui ho giocato in assoluto è stato senza dubbio Oberdan Biagioni. Era a fine carriera, ma usava il destro e il sinistro in maniera divina, si vedeva che era un giocatore che aveva calcato i palcoscenici della Serie A. Ci tengo a citare anche Federico Cerone, con cui ho giocato a Guidonia, un sinistro magico che ha giocato in Lega Pro ma che a mio parere ha avuto una carriera ben al di sotto delle sue enormi potenzialità. Saliou a Pisoniano era una bestia della natura, se era in giornata a centrocampo non ce n’era per nessuno. In porta dico Ruggini, una pantera tra i pali e una grande personalità”.

I valori – “Il calcio è stata la mia vita, anche se mi rendo conto che purtroppo per un motivo o per l’altro non tutti possono sfondare. Quindi il consiglio che do ai ragazzi più giovani è quello di crederci sempre ma nel frattempo di crearsi anche un’alternativa. Se rinascessi rifarei le stesse scelte, però la realtà dei fatti dice che a trent’anni non ho fatto altro che giocare a calcio, senza ritrovarmi nulla a livello economico. Dal punto di vista umano e della crescita personale, le risate, le prese in giro, le litigate, gli abbracci, le lacrime, le soddisfazioni, le delusioni nello spogliatoio e le emozioni che mi ha regalato questo sport rimarranno per sempre una parte di me. Purtroppo poi quando le cose non vanno come devono andare, bisogna guardare comunque avanti con positività, facendo autocritica e imparando dai propri errori”.

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