Home Cronaca Con i Panta il rock ha ancora molto da dire

Con i Panta il rock ha ancora molto da dire

Con i Panta il rock ha ancora molto da dire

di Alessandra Paparelli

Intervista ai Panta, rock band romana della scena indipendente italiana che mescola Indie Rock, New Wave e letteratura: in uscita Lady Magritte, il loro ultimo singolo. Nel 2019 la band ha pubblicato il loro primo disco Incubisogni (Mei/Goodfellas), un momento importante di svolta: è stato il momento del vero lancio del gruppo con le partecipazioni al MIAMI, l’apertura al concerto di Giorgio Canali & Andrea Ruggiero a Le Mura di Roma, l’apertura ai Calexico and Iron & Wine a Villa Ada, sempre nella Capitale. 

Avete dato vita a una bella mescolanza di creatività, arte e musica nel panorama italiano. Come nasce l’esigenza creativa e quando? Come vi siete incontrati?

Grazie mille per questa super presentazione; diciamo che il mio obiettivo – come fondatore della band e nostro in senso più ampio – era proprio quello di creare un immaginario originale, creativo, aperto tra le arti, ma che avesse il Rock’n’Roll come comune denominatore musicale. L’esigenza era sia personale, volendo finalmente esprimere qualcosa di sé nel modo più profondo, sia un po’ socioculturale: i nostri coetanei, ovvero più o meno i nati negli anni 90, e le generazioni ancora più giovani non sembravano avere più il Rock’n’Roll come musica di riferimento quando sono nati i Panta, che per noi invece è innanzitutto una forma assoluta di libertà e sperimentazione. Era ed è una bella sfida creativa perciò: il Rock ha ancora qualcosa da dire? Diciamo che chi è stato o è nei Panta ha partecipato in prima linea al tentativo di rispondere a questa domanda ahah. Con alcuni già ci conoscevamo da prima o ci siamo conosciuti comunque suonando nella scena romana (come con Giordano Nardecchia), con Davide (Panetta, il nostro bassman!) ci siamo invece conosciuti attraverso un annuncio come nelle migliori storie delle band che amiamo.      

 “Lady Magritte” è il vostro nuovo singolo uscito venerdì 26 giugno scorso. A cosa vi siete ispirati e qual è la rivoluzione da compiere, per noi esseri umani? Un cambiamento personale, generale, una presa di coscienza personale ma anche generale, da cittadini responsabili?

“Lady Magritte” è nata come un instant karma (così posso ricordare subito John Lennon). Sono cinque anni che pratico felicemente la meditazione trascendentale grazie a un sorprendente incontro personale e a un colloquio con David Lynch a Parigi che è stato come ricevere la sacra investitura delle Muse da quello che era per me l’artista di più grande riferimento sul pianeta. La meditazione mi ha completamente cambiato la vita in meglio ed è stata decisamente la mia rivoluzione, i Panta stessi sono nati da questo rinnovamento profondo di energie. C’è chi, negli anni, ha voluto condividere questa rivoluzione con me e nel frattempo compiere la sua e “Lady Magritte” è stata ispirata da tutto questo arrivando un giorno così, dal nulla, come un dono da chissà dove. Chi ha il coraggio di prendere coscienza di sé, riesce poi anche a immaginare un mondo migliore e a essere un cittadino migliore, più maturo, con minore paura del “diverso” e maggiore empatia con tutto quel che lo circonda. 

Lady Magritte: i muri da abbattere sono dentro e intorno a noi? La vostra musica costruisce ponti e abbatte muri?

Grazie perché hai ricordato il verso di cui vado più fiero in tutta la canzone: “Ti senti più al sicuro, / se abbattiamo questo muro / invece di tirarlo su”. Esattamente, non potrei dirlo meglio di come hai scritto tu: il fine ultimo per cui facciamo musica è quello di provare umilmente ma con tenacia a costruire ponti e abbattere muri. È quel che ad esempio ho provato a fare coi Panta vivendo e lavorando da un paio d’anni tra Roma e l’Inghilterra – prima con Steve Lyon ai Panic Button Studios e ora con Paolo Violi ad Abbey Road Institute – nel momento in assoluto più caldo della Brexit. Ho visto la musica, l’arte, la cultura unire le persone e la politica, il sovranismo, il nazionalismo più cieco, fomentare solo divisione in nome di non si sa bene cosa, facendo leva sui luoghi comuni più beceri e sull’ignoranza. Nel frattempo, Trump “se ne usciva” con la follia del muro in Messico e i sovranismi europei gli andavano dietro (basti pensare al muro in Ungheria). Ecco, noi sia come musicisti che come cittadini siamo contro tutto questo e crediamo invece in quella splendida frase che chiude Hey You dei Pink Floyd, in quella che è forse la più grande opera contro ogni muro del 900, The Wall: “Together we stand, divided we fall”.   

L’emergenza Covid-19 ha cambiato le persone in peggio o in meglio?

All’inizio abbiamo avuto tutti, nella band e nelle persone attorno a noi, una forte fase di utopia in cui pensavamo che la pandemia potesse far prendere atto del fatto che i ritmi imposti dallo sfruttamento “intensivo” delle risorse (stabilimenti intensivi, allevamenti intensivi, produzioni intensive, etc..) ha di fatto semidistrutto la flora e la fauna di questo meraviglioso pianeta negli ultimi cinquant’anni. Sembrava la grande chiamata, del tipo: se non cambiate qualcosa e presto, sarà troppo tardi. Ognuno sembrava chiamato a porsi almeno un paio di domande in più su di sé e sul mondo. Invece già nella fase 2 quasi tutti sembravano far finta di niente, ora non ne parliamo… Però, quell’utopia da qualche parte rimane come speranza, per come la vedo, mi sembra di sentire una forte voglia di cambiamento nelle anime progressiste del mondo, che si è accesa ancor di più dopo i terribili fatti legati a George Floyd. È tempo di sognare in grande e di far sentire la propria voce il più forte possibile, riprendere quelle battaglie civili e sociali degli anni 60 e 70 prima che l’odio e il nazionalismo ci riportino al passato peggiore!       

Momento difficile e delicato per la musica e lo spettacolo: la parola Cultura è oggi un tema scottante, ma anche scomodo e sottovalutato? Che cosa occorre alla musica italiana, oltre ai fondi e sostegno per la scena indipendente e emergente?

Abbiamo un premier che nella conferenza stampa cruciale sui settori del paese ha parlato del nostro campo iniziando con “E veniamo ai nostri artisti, che ci fanno tanti divertire…’. Questo la dice lunga su tutto, in Italia chi lavora nella musica, nello spettacolo e nella cultura – un po’ nell’ambito umanistico in generale – è visto perlopiù come un giullare che sta lì e fa l’intrattenitore a meno che non trovi gli agganci giusti (questo pensa l’opinione pubblica) e suoni davanti a diecimila persone: solo così allora vieni rispettato, se fai grossi soldi. Abbiamo un enorme problema culturale in questo senso e lo posso dire ancora più a gran voce dopo l’esperienza in Inghilterra, dove il livello di professionalità e serietà con cui un artista viene trattato – dal più piccolo al più grande – è davvero di tutt’altra pasta. Non basteranno fondi e bandi se non si risolve prima o poi questo gap di mentalità tipicamente italiano che ci fa stare indietro di anni rispetto al resto del mondo.   

In “Svegliati adesso” veniva auspicata la resilienza, soprattutto in un momento storico delicatissimo. Vi chiedo, resilienza o resistenza? Progetti attuali e prossimi, votati alla resistenza o resilienza? 

Diciamo che nel tempo come band abbiamo sentito di star facendo a modo nostro la resistenza, nel fare solo quello che ci scorreva dentro in piena libertà e al di là delle mode, a tratti barricandoci anche: la seconda parte del nostro primo disco Incubisogni, a risentirla ora, è veramente scura per certi versi ad esempio. Attraversati quei sentieri più dark, sia di energie che musicali, che comunque avevano il loro diritto di essere percorsi, siamo riusciti a “riveder le stelle” (e qui la meditazione c’entra ancora molto) e sicuramente siamo da circa un anno in una fase di grande resilienza. Senza pensare troppo agli ostacoli, suoniamo veramente solo quello che ci piace nella maniera più libera e pura, Rock’n’Roll senza troppi fronzoli, “Svegliati adesso” era appunto un risveglio e “Lady Magritte” una botta di belle vibrazioni. Stiamo andando sicuramente in questa direzione anche col materiale nuovo per il secondo disco, che non vediamo l’ora di ultimare!    

In ultimo, vi chiedo; è difficile trovare in Italia un gruppo emergente che non sia un clone ma che abbia una propria personalità e identità? E se sì, perché? 

Hai toccato un punto centrale della scena musicale italiana oggi e usato un termine che ritorna tantissimo anche nei discorsi di band, “cloni”. Sono 5 anni circa, quindi più che abbastanza, in cui in Italia se vuoi avere hype devi fare o It Pop (dopo che hanno distrutto la parola “Indie”) o Trap, e continuano a proporsi e riproporsi delle copie delle copie fatte a tavolino che veramente non hanno niente da dire. Vanno i suoni naif anni 80, tutti puntano su quello; va la chitarrina acustica scordata e il sentimentalismo da scuola media, tutti puntano lì; va la trap, buttiamo ovunque un po’ di autotune. Ti possiamo dire che girando l’Italia in tour la cosa più rara è stata trovare tra le realtà emergenti qualcuno con un’identità artistica forte, chiara, originale, che volesse rimanere fedele innanzitutto a se stessa. Questo, secondo me, è dato dal fatto che chi fa musica non per la musica ma soltanto per apparire, per spararsi le pose su Instagram e vedere i “numeroni” sotto Spotify, semplicemente non ha contenuti. Non avendo contenuti propri, allora, non hanno un’identità propria e si copiano a vicenda come se si mordessero la coda. E questa è la cosa più lontana dal Rock’n’Roll e dalla musica come forma d’arte che si possa immaginare, all’interno di un sistema che in realtà aiuta chi non ha contenuti e danneggia chi li ha, paradossalmente. I conti si fanno alla lunga distanza però, quindi noi siamo qui e non arretriamo di un millimetro, vedremo invece alla fine di tutti questi posers (le persone che posano, Ndr) chi resterà.    

foto Arianna Pannocchia

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